martedì 19 novembre 2013

Il film di animazione "El Empleo" rappresenta la "disumanizzazione"

Partiamo col dire che questo video ha vinto il “Premio del Pubblico al Festival di Berlino“, raggiungendo un totale di 102 premi e diventando la storia breve argentina più premiata.
Il titolo “El Empleo“, cioè “l’impiegato” è significativo di quello che il video rappresenta.  E’, in forma di cartone animato, la “piramidalità” se così si può definire della società moderna, dove ogni uomo è al servizio di quello che gli sta subito sopra.
Ogni persona vive per servire qualcuno, anche colui che crediamo un super uomo perché tutti sono al suo servizio, alla fine altro non è che lo zerbino di qualcuno sopra di lui.
L’uomo macchina, o meglio, l’umanità macchina. Il nostro mondo sta perdendo questa umanità. Ogni uomo è occupato a servire qualcuno, nonostante la vita insegni che siamo tutti uguali, dovremmo essere tutti allo stesso livello, nessuno dovrebbe essere lo zerbino di un altro.






E’ triste questo video, straziante come nonostante l’uomo che ha tantissimi al suo servizio, apparentemente abbia tutto, sia sempre triste, mai sorride, mai è felice… eppure tutti sono li per lui… già la verità è che anche lui a sua volta è parte della macchina più complessa che forma questa piramide nella quale l’umanità si è perduta.
Chissà se chi sta in cima avrà un sorriso almeno lui o se anche lui dovrà rendere conto a qualcuno a sua volta… Per essere felici bisogna smettere di usare le persone, bisogna smettere di servirsi degli altri per raggiungere scopi che alla fine non ci rendono migliori o più felici… Le relazioni, le amicizie gli amori, l’altruismo e l’umanità ci rendono felici e ci differenziano dalle macchine.
Diversamente non siamo niente, se non ingranaggi di una macchina che non funziona neppure troppo bene.


di Rossana Corti

venerdì 11 ottobre 2013

"Anche Se a Londra Piove", il successo di Enrico Atti





Anche Se a Londra Piove” (Tempo al Libro Editore, 2012) è un libro di Enrico Atti, scrittore centese già pubblicato nella “Giovane Antologia Faentina” con il suo racconto “Sangue e Traminer”.

Quanto a questo romanzo mi piace metterlo giù come una buona presa per il culo. Ci sono delle spie, magari la copertina con la foto dai colori elettrici Anni 90 che vanno d'accordo coi pezzi Brit che piacciono tanto a Giulio, ma che, di controcorrente alla classica storiella di fuga italiana a Londra dai soliti 3 momenti narrativi “che palle”, cambia il colore del té con quello che potrebbe essere un detergente blu, del detersivo, diciamo anche un po' della pioggia acida londinese che sostituisce così bene i due soliti cuori a pennarello sulla pietra di Trafalgar Sq.
In questo senso, senza sacrificare ciò che accade, il libro è un po' un manifesto di quello che mi piacerebbe definire l “Attismo” più nero, il quale non pare andare a braccetto con le storie confezionate ad arte per nuove e vecchie generazioni di teenagers che oggi scelgono ancora Londra a Berlino, ma più alla catastrofe di un personaggio, Giulio, in cui storia italiana e scazzo giovanile (e anche buona volontà) si fondono in un perfetto soggetto intrattenitore.
Il libro, oltre che a contenere delle memorie in prima persona, scandite originalmente da una complilation “umorale” (i nomi dei capitoli), è un manuale d'uso della metropoli di chi a 19 anni lascia l'Italia dopo un amore finito male. Dalla spesa, alle lavatrici, ai coinquilini, alle donne, alle amiche delle donne, alla testa al muro a cui si alternano momenti di viva rigenerazione, il libro è un successo, e vi mette nelle condizioni di invidiare chi mai un Giulio vero lo conosca uguale a quello della storia.

Il libro è stato già presentato e continua ad essere presentato nel bolognese – ma quest'estate anche in una caldissima accoglienza Cagliaritana “letta” dal bravo Dario Cosseddu e curata dal mito Carlo Birocchi. Enrico Atti, la cui favella è quella di un ottimo conduttore radiofonico, intrattiene sfiorando i lati frastagliati della storia, della quale però non vuole concedere nessun esito.
Anche per questo dovete comprarlo.

Fabrizio Marciante



Enrico Atti in questo romanzo dà voce, anima e corpo, a Giulio. Un ragazzo di provincia come tanti che un bel giorno arriva all'apice della sopportazione e decide di scappare. Scappare dal faccia a faccia con la vita, scappare dalle responsabilità e dalla monotonia. Prende un biglietto di sola andata per Londra, la città dei sognatori, senza obbiettivi particolari. Lì scopre che le cose da cui voleva scappare lo hanno inseguito e non se ne libererà facilmente.
Il ritratto di una generazione incarnato in un unico romanzo. Semplice, scorrevole e a tratti commovente.


Francesca Marchesani



Ho letto “Anche se a Londra piove” da quasi un anno e ancora ricordo distintamente personaggi, dettagli e “canzoni” che ascoltava Giulio nel suo iPod. Il libro mi piace perché ci fa perfettamente comprendere le emozioni che prova il protagonista prima di emigrare, e le sensazioni che ha in seguito vivendo la metropoli inglese. Avendo vissuto anch'io un anno nella capitale inglese posso dire che la storia narrata rispecchia fedelmente la realtà intesa come fenomeno di giovani emigrati a Londra, e quindi, soprattutto in questi anni in cui tale fenomeno è alquanto elevato, il libro potrebbe anche essere inserito nella categoria “attualità”.

Mark Reeds



In poche parole vorrei dire che è un libro che merita, in quanto la storia è piacevole e scorrevole (anche per chi come me non è un abitué della lettura), ma soprattutto una "chicca" è l'ironia pungente di Atti che si coglie in una grande serie di battute per palati fini.
Un altro bello spunto è dato dal fatto delle "citazioni musicali" , particolarità che lo rendono un libro "diverso" e appunto per quello, curioso, che ti incolla alle pagine finchè non finisci tutta la storia.

Saverio Magri



L'ho trovata una lettura avvincente piena di riferimenti a fatti che qualunque ragazzo vive o può aver vissuto, e questo lo rende un romanzo adattissimo a un pubblico di giovani.
E' un romanzo ricco di umorismo così da non renderlo mieloso, e il fatto che sia costantemente legato alla musica, fa si che il lettore possa essere coinvolto maggiormente, ritrovandosi magari nei brani citati nel libro!
Questo romanzo lo consiglierei a chiunque sia interessato a capire come un giovane di 24 anni vive l'esperienza della ricerca di nuove opportunità in uno stato diverso dal suo incontrando difficoltà e cercando modi per superarle.
Nel libro vengono trattati svariati temi quali la droga, l'alcool, l'integrazione in una nuova società e il pregiudizio, ma anche temi come l'amore e la sessualità visti in un'ottica molto personale ma comunque decisamente aperta.

Emanuele Callegari



Anche Se A Londra Piove è un romanzo di suoni, sogni e realtà. E' quello che potrei definire un buildungsroman indie:il passaggio di Giulio dal paese emiliano alla realtà londinese con la sola compagnia di ciò che in fondo gli ha fatto desiderare questo passaggio, la musica.
L'esperienza londinese regala a Giulio molte esperienze che nel suo paese nativo non avrebbe potuto sognare, ma allo stesso tempo lo priva dell'ingenuità e delle certezze adolescenziali. Più che un viaggio, quello di Giulio a Londra è un vero e proprio allunamento, tanto è differente il mondo circostante.
Anche Se A Londra Piove altro non è che la cronaca di viaggio di questo astronauta adolescente, viaggio che avrà soprattutto l'effetto di renderlo estraneo sia a S. Stefano di Stopasso (posto da cui egli proviene) che a Londra, che si rivela essere un pugno a tutte le idealizzazioni e i sogni musicali di un giovane come un altro.  
Come diceva qualcuno: “ogni scelta è un'opportunità che ha il sapore di mille rimpianti” Giulio questo avrà tutto il tempo di scoprirlo, ma almeno col suo fido iPod con se.

Giuseppe Forte



Enrico Atti:
www.facebook.com/AttiEnrico
www.facebook.com/AncheseaLondrapiove
https://twitter.com/enricoatti




giovedì 5 settembre 2013

Un Giardino Per Esistere







Nel "Il giardino segreto" di Frances Hodgson Burnett, la decenne Mary Lennox - che non è mai stata cara a nessuno, neanche a se stessa - scopre il giardino segreto di Misselthwaite Manor, hortus conclusus dotato di un'anima propria, senziente, una sorta di Genius Loci, che desidera riavere un custode per rinascere. Ciò che la legherà al luogo, sarà il riconoscervi le sue stesse ferite: "Non è di nessuno. Nessuno lo vuole, nessuno lo cura" ( dal capitolo decimo). Specchiandosi in quella desolazione, sceglierà di agire per riportarlo alla vita e, nel farlo, guarirà se stessa.
Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di trovare un rifugio dove nascondersi/sottrarsi alle insidie del mondo, per rinnovarsi: uno spazio magico, in cui l'invisibile può acquisire energia buona per nutrire il visibile.
E questo luogo, il proprio posto nel mondo, si definisce attraverso i legami affettivi, con individui e per transazione con luoghi e oggetti.
Nessuno può esistere senza che qualcuno e/o qualcosa lo accolga in sé. Dandogli un'identità, che solo attraverso il confronto (vedi gli studi sull'attività dei neuroni specchio) con l'esterno, con l'altro, può essere connotata.
Martin Heidegger asseriva che la cura è la struttura fondamentale dell'esistenza, da cui deriva che essere nel mondo, per l'uomo, significa prendersi cura delle cose e aver cura degli altri. Fare/dare per essere.
Il primo giardino bisognoso di cure è la nostra anima. In cui bisognerebbe costantemente ripetere Timshel- Tu Puoi, per rinfrancarla dai fallimenti e spingerla a proseguire nella quotidiana lotta contro le avversità. La via è aperta solo per chi è capace di credere e di combattere.





Viviamo in tempi interessanti... Ma "si può uscire da qualsiasi luogo se si è capaci di cambiare sogno" (da "Lo specchio nello specchio" di Michael Ende) e, immaginare un futuro di vittoria, è già ipotecarne la  possibilità evadendo dai propri limiti momentanei.
E ciò "che non è voluto difficilmente prospera" (dal capitolo quindicesimo de "Il giardino segreto").
Il secondo giardino è, senza restrizioni inattuali, un topocosmo. La Terra intera, di cui la razza umana dovrebbe essere responsabile custode.
E' questione attuale il tentativo di sviluppare un giardinaggio di riparazione, ma vi sono infiniti ostacoli per la sua attuazione internazionale, nonostante la diffusa consapevolezza dei rischi derivanti dall'inquinamento ambientale e dalla distruzione dei suoi polmoni verdi.
Esistono infatti enormi fasce di popolazione mondiale a cui è preclusa la possibilità di non nuocere all'ecosistema.
Nell'Africa Sub - Sahariana a causa del "land grabbling" ossia dell'accorpamento delle terre da parte di Stati esteri e di multinazionali (che hanno generato anche l'inferno di Agbogbloshie in Ghana, discarica a cielo aperto di rifiuti elettronici dell'Occidente), impedisce gli investimenti delle comunità e dei piccoli imprenditori agricoli (il 70% dei coltivatori è donna), che non riescono a produrre neanche il necessario per la propria sussistenza.
In America Latina ( ma la piaga si sta diffondendo anche in Europa, in Australia e in India) si dibattono tra casi di bioterrorismo - con un'esplicita accusa spiccata contro la multinazionale USA, di semenze OGM, Monsanto - veicolati dalla farfallina Helicoverpa armigera, ed epidemie fungine che falcidiano i raccolti senza che i contadini, privi di mezzi economici, possano opporvisi.
L'umanità si divide tra coloro che possono permettersi di sviluppare una vita eco-sostenibile (con tanto di abitazioni passive, interamente autosufficienti) e le moltitudini che affrontano inferni in terra e indigenza. Per gli sventurati l'alimentazione bio certificata, i giardini alimentari, etc. etc. sono soltanto lussi inarrivabili. Anche nella ricca Europa. Anche a Cagliari.
La battaglia per rendere accessibili a tutti i beni di prima necessità appare altrettanto chimerica.
E non soltanto per le azioni politiche e finanziarie di un ordine coeso di speculatori senza scrupoli che pilota il mercato e i focolai di guerra...
E' sostenibile la teoria di una trasformazione che consenta a ben oltre sei miliardi di umani e un numero imprecisato di altre forme viventi la sopravvivenza senza selezione naturale? Un solo pianeta, un solo topocosmo che non possiederà mai risorse infinite.
Ipotizzando la creazione di un iper stato internazionale che imponga la ridistribuzione dei beni, l'uso esclusivo di fonti energetiche Green, la pace universale e il benessere condiviso: come contenere natalità e fabbisogno procapite?
Colonizzando altri mondi? Ipotizzando sterilizzazioni di massa tra umani e altri animali? Eliminando individui sorteggiati?
Salvo che catastrofi naturali, epidemie, asteroidi in collisione o guerre mondiali non provvedano all'eradicazione del problema a breve...
Forse è meglio non pensare in una prospettiva di lungo periodo...
E limitarci a fare ciò che possiamo, nel nostro micro-mondo quotidiano, per contribuire alla sopravvivenza del giardino.
Chiunque può agire per "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio" (da "Le città invisibili" di Italo Calvino), preservando almeno il giardino interiore, la capacità di restare vivi, autenticamente." 


di Rossana Corti

mercoledì 21 agosto 2013

Mimmo Di Caterino e il suo "Altro Sistema dell'Arte"

Iniziamo con un po' di lessico, neo-lessico ed anagrafe. Partiamo dall'Arte, buttiamo in mezzo “Ri-fenomeno” e infine Domenico “Mimmo” di Caterino.
Per quanto riguarda “Arte” lasciamo ai lettori più liberi di pensiero di abbandonarsi alla loro concezione di tale parola con la stessa libertà con cui il suo significato dovrebbe essere esercitato; adesso riconosciamo pacatamente nel neo-termine di Radura “Ri-fenomeno” la persona e la corrente insieme che in questa sede vuole ri-scuotere lo status quo della fruizione dell'arte oggi in Italia.
Per finire prendiamo il napoletano di nascita Mimmo di Caterino, classe 1973, e teniamo conto che è entrato ed è uscito nelle e dalle istituzioni dell'arte da una vita ormai, sin dall'Accademia di Napoli che dalla rivista “Exib Art”, e che ha fatto di tale esperienza, insieme al suo operato diretto in quanto pittore, l'humus che lo ha a portato a scrivere un “Altro Sistema dell'Arte” (Book Sprint 2012), che acquistate su http://www.booksprintedizioni.it/libro/arte/altro-sistema-dell-arte .

Riportiamo qui un passo del saggio, che potrebbe definirsi la bibbia di quello che Di Caterino non si è limitato a teorizzare, ma di quanto egli e la sua compagna portano avanti tutt'ora con la sua Tavorart Mobil (http://tavorartmobil.blogspot.co.uk/ ). L'idea è eccezionale, e poi c'è Cagliari, a cui Radura è sempre affezionata. L'automobile diventa un “non-museo mobile”. I video di tali “esibizioni” disponibili sul tubo possiedono tutta l'informalità di chi di arte fruisce e gioisce senza parti terze. Pare si sia tra amici, proprio lì dentro in macchina, e qualcuno comincia a parlare d'arte e ti mostra opere contemporanee di tutti i generi e di persone il cui nome forse non avresti mai sentito pronunciare, nell'esclusività di un momento intimo che nulla spartisce con i burocrati prezzolati che allestiscono i già vuoti musei d'Italia.
Ed è anche a costoro che consigliamo questo libro.

Di Fabrizio Marciante




ALTRO SISTEMA ANARCHICO DELL'ARTE

Un "Altro sistema dell'arte" gli artisti non possono pensare di costruirlo per decreto legge, bisogna farlo gradualmente dal basso, partendo dal ruolo dell'artista stesso nell'attuale sistema dell'arte, bisogna costruirlo dentro il guscio del vecchio e dell'Accademico, basandosi sull'interconnessione e l'autogestione tra gli artisti che sappiano partire e intercettare le pratiche popolari e i luoghi comuni delle loro esistenze.

Attraverso l'interconnessione tra gli artisti è possibile recuperare una "economia del dono del segno artistico" non basata sul calcolo dell'artista, ma sul suo rifiuto di calcolare, aprendo così la possibilità di rappresentare un sistema etico, prima che estetico, dell'estetica del rifiuto e del rifiutato.

Gli artisti, con i loro linguaggi, codici o stili, possono attraverso le pratiche connettive, autorappresentarsi come un popolo privo di uno stato che ne limiti contenuti e operazioni, in grado d'intendersi su pratiche, linguaggi e rituali comuni del fare arte contemporanea, creando in questa maniera un sistema anarchico dell'arte, che sappia fare a meno della logica del mercato, dello stato e della rappresentanza di una fede o ideologia politica.

In quanto rappresentazione immaginaria, questo "Altro sistema dell'arte" è istituzionalmente responsabile della sua esistenza e forma e anche della rivalutazione del classico e Accademico sistema dell'arte figlio diretto della rivoluzione industriale e del lavoro dell'artista intermediato da un "addetto ai lavori".

In questo tempo di trasformazione radicale è possibile inventare nuove forme sociali, politiche ed economiche,inedite nella loro gestazione connettiva e collettiva, anche per l'artista che le pratica e sperimenta.

Questo "Altro sistema dell'arte" sarà una connessione tra miriadi di comunità, reti e progetti sovrapposti e intrecciati, non sarà una conquista e neanche un cataclisma rivoluzionario, sarà un semplice processo di sviluppo attraverso la lenta creazione di nuove forme di comunicazione e organizzazione.

Tratto connettivo e comunante sarà il movimento, il corso conseguente del tempo, muoversi trasformerà un progetto di altro sistema in identità di un nuovo sistema, il movimento ossificato diverrà attraverso la memoria dei social network proprietà collettiva autoevidente.

La matrice di tutto questo? La generazione italiana dei centri sociali, quella che ha rifiutato il lavoro industriale pur difendendone i diritti, una generazione che negli anni anni novanta ha saputo anticipare tendenze che ora sono planetarie, diffuse e generalizzate, sapendo contrapporre alla finta globalizzazione delle multinazionali una reale globalizzazione dei movimenti, in grado di sfondare muri, limiti e frontiere.

Per questo possiamo definire questo secolo, il secolo dell'artista anarchico in grado di mettere sotto assedio summit Accademici e di mercato dell'arte, in grado di potere fare fronte e causa comune per il sistema dell'arte che verrà assumendosene la responsabilità.

Dal sud dell'isola, Domenico "Mimmo" Di Caterino o se preferite "Mario pisci a forasa".




lunedì 5 agosto 2013

Camerieri barra scrittori: i WRAITER


Se andate su LinkedIn, e la cercate in qualche menù a tendina, non la troverete mai. Wraiter. E’ una parola che non esiste. Trovate waiter (cameriere) oppure writer (scrittore). Quelle si, sono professioni che esistono veramente. Perlomeno, secondo LinkedIn e tutti i menù a tendina della rete. Eppure, la realtà, è un po’ diversa.

Ne parlavo l’anno scorso su Notizie-News, in un articolo poi finito su Informazione Libera e sparso per i social network: i wraiter sono ormai una realtà consolidata.
Il termine è un neologismo, che con un gioco di parole fonde le due professioni sopracitate e ne crea una terza, molto più reale e verosimile delle altre due. Il wraiter.
Il cameriere-scrittore. Quello che di giorno lavora al ristorante per pagare la stanza in cui scriverà racconti di notte.
Ne parlavano I Cani nel loro singolo Velleità, in cui anche “i nati nel ‘69 fanno i camerieri al centro e scrivono racconti”. E si parlava di wraiter anche oltreoceano, quando nel film One Day (tratto dal romanzo d’esordio di David Nicholls, portato sul grande schermo nel 2011) la protagonista Emma (Anne Hatheway), cameriera a Londra, si rivolge ad un collega chiedendo la propria barra“Qui dentro siamo tutti cameriere barra scrittore, cameriere barra attore, cameriere barra musicista… e tu? Qual è la tua barra? Benvenuto al cimitero delle ambizioni.”
In realtà, la doppia professione è tutto tranne che un cimitero: è condizione necessaria per continuare a sognare, e far si che il sogno prima o poi possa tramutarsi in realtà. E lo sanno non solo i camerieri, ma anche tutte le altre barra (pardon, arti) e professioni precarie che con la ristorazione hanno parecchio in comune, a cominciare dalla vita incerta affiancata alle ambizioni di chi accetta quei posti di lavoro.
La situazione dell’editoria italiana nel 2013 è disarmante. Le case editrici non accettano (quasi) più manoscritti, i talent scout stanno scomparendo, l’editoria a pagamento e il self publishing via ebook stanno annacquando (se non addirittura inquinando) un mercato che ormai sulla scia della “coda lunga” si avvia verso la “coda infinita”. A fronte di una decina di scrittori professionisti, ci sono decine di migliaia di signor nessuno che vendono meno di 50 copie delle loro opere. E per qualcuno di loro 50 copie restano un sogno.
Insomma, se non sei Baricco, Volo o Saviano, con la scrittura non ci campi. Tuttavia, quando sei un D’Avenia, è meglio affiancare un qualcosa di più sicuro.
I giovani d’oggi non vogliono nemmeno essere dei paragonati a questi mostri sacri delle vendite, peraltro spesso messi in discussione e criticati pesantamente (e concedetemelo: talvolta giustamente, ci si conceda un po’ di sana critica).
Nella profonda crisi culturale che ha investito il nostro Paese, ben lungi da una soluzione in tempi brevi, l’imperativo è sopravvivere ed arrangiarsi. Anche all’estero: Nicholls, in fondo, ha semplicemente fotografato una realtà che esiste da sempre, e ultimamente è diventata scelta obbligata. E non soltanto in Italia.
Oltre ai giovani in fuga con il trolley da 10 kg (i nuovi emigranti), c’è una percentuale di scrittori italiani che risiedono e lavorano all’estero, ma scrivono in lingua inglese, pubblicando nei circuiti di vendita internazionali.
La doppia professione esiste da sempre, e possiamo sempre citare il buon Chuck Palahniuk che dai suoi mestieri più disperati e disperati ha tratto l’ispirazione per le sue opere, oppure ironizzare con “Sei uno scrittore? Figo… quindi che lavoro fai?”. Quello che contraddistingue i wraiter di oggi è lo stile.
E non stiamo parlando di prosa, ognuno ha la sua (e ci mancherebbe), ma lo stile di vita. Gli scrittori di oggi devono mantenere un minimo di regolarità, organizzazione e competenze. Soprattutto competenze informatiche e di comunicazione, nel mondo dei social. Email, sito e blog sono soltanto le basi di una serie di strumenti: facebook, twitter, tumblr, instagram, e ogni altro mezzo gratuito e potenzialmente virale diventa utile per mantenere i contatti con il mondo esterno, per comunicare e farsi trovare. Così come è fondamentale imparare a gestirsi tra i turni di lavoro e le pagine di scrittura.
La moleskine e il computer portatile restano degli evergreen, ma si affiancano wi-fi libere e  iPad. Aumenta il numero di wraiter che vivono nelle metropoli, per poter avere nuove ispirazioni (per raccontare meglio la provincia di casa appena lasciata, a volte), che spesso cercano tranquillità in biblioteche e locali poco frequentati, spesso più silenziose delle loro abitazioni (mai vissuto in una casa di studenti universitari?) in una eterna ricerca della massima resa tra servizio e prezzo. Perché non dobbiamo dimenticarci che il lavoro nella ristorazione non è certo per vocazione, ma è per pagarsi da vivere.
La parte più difficile da gestire resta sempre l’equilibrio privato: è sempre dura smentire il pirandelliano “la vita o la si vive o la si scrive”. E se era difficile per Pirandello, che veniva da una famiglia agiata, figuriamoci per chi si deve destreggiare tra il taccuino delle ordinazioni e quello dei racconti.
Se non altro, impareranno a non arrendersi: sanno benissimo che quando si arriva alla frutta, c’è ancora il caffè.



di Enrico Atti

martedì 23 luglio 2013

Per me è meglio il libro, ma vado al cinema lo stesso...

...se non altro per avere una scusa per dirlo, per capire come lo hanno potuto trasformare.
Un libro è pura fantasia. Quando una storia è scritta ci sono tante ragioni per averla messa in quel modo lì. Messa in scena, intendo. La scena però si svolge dentro la testa di ciascuno che legge. Come un copione è una dichiarazione d' intenti un libro è la sua ispirazione. Quello che i fatti suggeriscono di fare o dire per una determinata scena. La realtà a parte la realtà (quella vera). Il cinema tratto dal libro è una specie di “se non capisci ti faccio un disegno”. Io ho capito ma a volte il disegno aiuta. E' una specie di dottore al quale chiedi un secondo parere. Il primo è logicamente il più autorevole e ti sei rivolto a lui per primo perché te lo hanno consigliato persone fidate o hai avuto i tuoi parametri per andare da lui prima di altri. Non è che non ti fidi completamente ma semplicemente vorresti cavartela con meno sbattimenti. 
Ecco il libro è una cura a quel famoso buco. Anche il cinema lo è, in un certo senso, come terapia d'urto. Un libro è omeopatico, ti chiede il suo tempo, per agire e raggiungere illuminazioni che a volte basterebbe lo stesso tempo e una passeggiata in più ogni tanto. Ciononostante vogliamo di più, non ci basta immaginare con l'immaginazione, vogliamo poterlo fare per “davvero”.
Chiamerei pigrizia mentale o semplice risparmio energetico, suona vantaggioso, quella pratica che porta a scoprire il libro e leggerlo avendo visto il film.
Succede allora che non solo si fa meno fatica a seguire la storia conoscendone gli sviluppi, quando questa è rispettata per lo meno.
La chimica di un film e il suo livello di persuasione sono tali che portano a compensare e trovare rimedio alla mancanza di cui sopra anche se non ci crediamo veramente.
Un libro non pretende questo passaggio, anzi deve soprattutto essere plausibile (per prenderti la briga di immaginare devi almeno credere a quello che leggi). Come se invece dell'autostrada l'immaginazione facesse un percorso tortuoso e ridicolo. Vedi parole che suggeriscono immagini, immagini che portano a concetti, concetti che costruiscono pensieri, pensieri che producono parole (altre, con buona pace di Battisti e Mogol)
Sembrerebbe fin qui un complotto, devo starmene seduto qui perché là fuori c'è un brutto mondo, o la verità. A volte le due cose coincidono. Quando leggi vai più lento di un film (a meno che non sia uno di quegli adattamenti della Bibbia). Ho bisogno delle immagini, ho bisogno di vedere (tutto e subito), di scoprire cosa c'è davvero da vedere. Il libro sembra ricordarti continuamente quello che la polizia - mentendo - ti rivela al contrario, normalmente di fronte a “spettacolari” incidenti.
La vera immagine che ognuno si fa del libro tradotto e ridotto in film è falsificata, nessuna sa dire esattamente in che parte è stata tradita e trascurata la sua personale versione di “persona informata sui fatti”. Non c'è rimedio a un'arrabbiatura da lettore/detrattore. C'è una grossa delusione invece in un libro letto in seguito alla visione del film.
Un film (specialmente se doppiato) ti porta a conclusioni affrettate, non lascia porte aperte, tende a consolare e rassicurare, in quest'ordine.
Un libro fa discutere. Se è buono fa addirittura cambiare.
Se invece hai visto il film hai sviluppato anticorpi per quella malattia che si chiama “mettersi in discussione”, ceppo modificato del paziente zero che ha contratto in forma mortale la malattia per antonomasia: “il libero pensiero.”
Casablanca” dicevano che andrebbe visto attraverso una cortina di fumo.
E' qui che è il succo di tutta la vicenda. L'esperienza, o il modo più rapido per raggiungerla anche con l'autoinganno. Oppure la sua negazione (dell'esperienza): il racconto, la registrazione di esso e la sua interpretazione.
On The Road” mi è piaciuto perché torna indietro su questo percorso. Fa su la strada al contrario.
Il libro mette in contrasto Dean e Sal. Sal è spesso associato a kerouac, ecco lui si mette a seguire Dean ma non vive le sue esperienze, non del tutto, mai fino in fondo. Perché sta prendendo appunti mentali mentre accadono. Le filtra. Dean è la vita che scorre e “ha il senso del tempo”, come ripete spesso.
Un libro è spaziale, riempie la testa come la musica dello stereo fa con la tua camera. E' il film che genera il libro, è il suo futuro vissuto nel presente.





Di Umberto Pettazzoni

lunedì 15 luglio 2013

Al cinema il documentario bomba su J. D. Salinger

Ci sono nomi di persone che conosci fin quando sei piccolo, ti giungono all'orecchio per forza, perché sono stati pronunciati tante volte. E' la legge della statistica. E dentro c'è Salinger. Salinger chi? Salinger lo scrittore. E Salinger è un po' per tutti associato al romanzo “Il Giovane Holden”, o all'americano “The Catcher in The Rye.”.
Holden Caulfield, il protagonista di questo romanzo di formazione che ha segnato generazioni e generazioni successive al secondo conflitto mondiale, è un sedicenne di uno spigliatissimo senso critico, si dichiara ateo e ama comportarsi da dodicenne.

L'uscita de “Il Giovane Holden” nel 1951 è stata una rivoluzione che non è mai finita, come se avesse voluto accompagnare tutte le annate di generazioni fino a quelle di oggi e quelle di domani allo spesso muro di ferro che segna la maturità. La nausea che permea dalle caselle sociali dell'America del dopoguerra, quello che noi chiamiamo “scazzo” giovanile nel senso più vero, quello della “non rincorsa” ai soldi, quello della gioventù svezzata dal ceto medio, critica, sognatrice, perennemente insoddisfatta.
Milioni di persone da tutte le parti del mondo si sono portate appresso questa “bibbia del giovane”, questo opuscoletto dove far combaciare il vero vissuto con la “santificazione” della carta.

Poi il silenzio, e nel silenzio l'ombra di un uomo alto e magro da una sigaretta al minuto, un uomo che prima di inventare Holden Caulfield ha dovuto far ritorno nei suoi Stati Uniti dopo aver vissuto lo stupro mentale della Seconda Guerra Mondiale. Poi il silenzio. Poi il trailer. Quest'anno. Dopo aver tenuto segreto questo documentario per ben cinque anni ecco che finalmente ne si annuncia l'uscita per il 6 settembre 2013. Philip Seymour Hoffman, Edward Norton, John Cusack, Danny DeVito, John Guare, Martin Sheen, David Milch, Robert Towne, nientemeno che Tom Wolfe, E. L. Doctorow, sono tutti i nomi di chi ha contribuito a dire la sua.

Il documentario tratta il mistero dietro la scomparsa dell'autore dopo aver scritto uno dei libri più letti al mondo. Il regista Shane Salerno ha messo insieme i tratti biografici di Salinger insieme all'architettura del suo Holden, ne ha riportato l'esigenza da parte della penna di risvegliare quei demoni che gli sono entrati dentro dopo aver vissuto l'amarezza della guerra. Il demone architetto della letteratura d'oro. Di come “Salinger non volesse che nessuno si mettesse fra lui e i suoi personaggi. Loro erano reali per lui che li muoveva sul palco come Dio.” Di come delitti efferati del secolo scorso siano stati consumati da mostri col suo libro sotto braccio, un po' l'idea di come il demone abbia il potere di creare qualità e devastazione insieme.



E poi, che il documentario ci dia la possibilità di crederci o meno, la rampa verso l'alto, il mistero che spiegato abbia il potere di riprodurne un altro ancora. In questo senso i grandi studi di produzione americani, qui la Weinstein Company, avranno probabilmente adottato l'uso vittorioso di una buona sceneggiatura nel racconto dei fatti, mettendo su un prodotto che ha ben poco da invidiare ad un thriller che si rispetti. O così per lo meno si spera. Aspettiamo.


di Fabrizio Marciante

martedì 2 luglio 2013

Il 17 Agosto arriva in Sardegna il Futuroscope Festival

Dopo quella bomba che è stato L'HereIstay festival - quello che aveva portato band magiche nell'isola - lo hanno fatto finire con la botta della "telefonata del giorno prima dal comune", è l'etichetta musicale italo-portoghese Shit Music For Shit People che tenta di rianimare l'estate sarda delle spiagge, delle live band e dei DJ Set da tutti sudati.

Da amante di Cagliari ci sono finito - come ogni estate - anche qualche settimana fa, a sentire l'odore di cosa capita o cosa non capita più avanti nel rossore di Luglio e Agosto, a bere qualcosa di fresco al bar scrutando le locandine dimenticate là sui muri scorticati. Leggo le date: è roba vecchia, nessuno le ha tolte e nessuno ha messo neanche quelle nuove. Forse era ancora troppo presto. Ancora non sapevo nulla.
Poi ho saputo, ho saputo di quest'etichetta che avevo già sentito. E' da un po' che fa roba. La Shit Music For Shit People è nata tra l'Italia e il Portogallo. Tommaso Floris - quello che la ha messa su - è un ragazzo di Cagliari, molto più giovane di me che di quello che passava per i concerti italiani mi sono sempre lamentato guidando verso casa la notte con gli amici addormentati sbronzi sui sedili di dietro. Io a parlare di cambiare le cose da solo, un rivolo eterno di vanità inconcludente, di cambiare quelle micro realtà di cover band che riescono a fare sempre soldi e che tengono la testa giù a chi da qualche altra parte in Europa lo hanno già preso su a suonare e che nei paradisi del mediterraneo forse quest'estate non più, forse mai. O forse si: Tommaso ha messo giù quest'idea, Futuroscope Festival. La sua Shit Music ha partorito l'evento dopo una gavetta di uscite in vinile di band che hanno fatto il botto in tour europei, come gli ultimi Wildmen ad esempio tornati da un ultimo "giro" primaverile di quasi un mese, dalla Spagna, la Germania e l'est Europa fino a Budapest, o i Vernon Selavy di Vincenzo Marando e ancora altri, altri ancora...

Poi - dato che non vedo l'ora - mi sono documentato un po' su Fordongianus e ho trovato le Termae, quelle romane. La regione storica del Barigadu vede sulla sponda sinistra del fiume Tirso o "Tirsu" - il più lungo e ampio di tutta l'isola - la presenza del paese noto per il complesso termale di antica età romana.
Ancora da Cagliari ho ripensato a quando ero finito ad Oristano due anni fa, provincia di belle spiagge sarde e tutto. Beh Fordongianus è ad un tiro da Oristano, e Oristano è nient'altro
ad un'oretta da Cagliari.
Mi sono ripromesso di tornare qui in Sardegna quest'estate. Sono sceso con basse aspettative, ma me ne risalgo a casa a Milano con una più grande.

Futuroscope line up:

Line-up:

JIBÓIA (Portugal)
William Dafoe (Spain)
SULTAN BATHERY (Italy)
Sequin (Portugal)
The Assyrians (Italy)
CANE! (Italy)
Brilliants (Italy)


Il 17 di Agosto tutti a distruggerci al Futuroscope Festival!


di Carlo Adelchi.